22 febbraio 2020 - 20:13

James Taylor, ricanto i brani che resistono nel tempo

Il cantautore lancia l’album «American Standard», una raccolta di 14 classici Usa riarrangiati: «Oggi non ascoltiamo le canzoni, badiamo allo show»

di Paola De Carolis

James Taylor, ricanto i brani che resistono nel tempo
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LONDRA Ha cantato per Clinton e per Obama, che nel 2015 lo ha insignito della Presidential Medal of Freedom, l’onorificenza più alta per un civile negli Usa. Ha incontrato Donald Trump una sola volta, in aeroporto: «Un uomo frivolo, che non meriterebbe la nostra attenzione». Ci sono argomenti che lo infervorano — la politica, l’ambiente, la condizione umana — e che lo spingono a scrivere canzoni.

A 71 anni si considera un tossico in via di recupero anche se da trent’anni non tocca droga: i traumi del passato «si superano ma non svaniscono, rimangono in agguato». «Guardo i miei figli e da una parte so che hanno tutta la vita davanti, ancora tutta da scoprire, dall’altra che rimani ciò che sei a 16 anni». James Taylor è a Londra per promuovere un nuovo album, il 19esimo, «American Standard», una raccolta di 14 classici statunitensi riarrangiati, da «My Blue Heaven» a «The Nearness Of You» a «God Bless The Child»: brani che hanno formato lui come tutta una generazione, «Carol King, John Lennon, Paul McCartney, Elton John, Bernie Taupin, Paul Simon. Un nuovo capitolo in una città che ha segnato l’inizio di tutto».
Già. Con i Beatles dalla sua parte.
«Incredibile, vero? Fu la loro casa discografica a farmi il primo contratto. Peter Asher, fratello di Jane, allora girlfriend di McCartney, aveva sentito una mia incisione. Mi invitarono per un provino. Cantai “Something In The Way She Moves”. Mi ingaggiarono. Era il periodo in cui stavano incidendo “The White Album”. Ci incrociavamo in sala di registrazione. A volte arrivavo prima e sentivo la fine delle loro sessioni».
Come ha scelto i 14 brani dell’album?
«Conosco queste canzoni da quando ero piccolo. Facevano parte della collezione di dischi della mia famiglia. Sono le canzoni con le quali ho imparato a suonare la chitarra. Per me rappresentano il culmine della musica pop, nel senso di popolare. Credo sia importante risentirle, ripresentarle al pubblico. L’aspetto vocale del pop si è evoluto, oggi è notevole, ma siamo in un’epoca in cui ciò che ascoltiamo è lo spettacolo di un’esibizione e il cantante, non la canzone. Questi invece sono brani che possono essere cantati da chiunque e resistono. È diverso».
Lei ha parlato molto della sua infanzia problematica, dell’ansia, della depressione, della dipendenza. È stato un viaggio doloroso tornare a questo capitolo musicale?
«In un certo senso analizzare queste canzoni in modo dettagliato le ha spogliate del loro antico significato personale e mi ha permesso di scoprirne un altro, ma ci sono brani come “God Bless The Child” di Billie Holiday, che ho cantato con la mia prima band, The Flying Machine, nel ’66-’67. Fanno parte del mio Dna. Ed è stato bello tornare a un’epoca in cui ascoltare ti assorbiva completamente. Oggi mi sembra che spesso sentiamo la musica come sottofondo, mentre guidiamo, scriviamo, lavoriamo, cuciniamo. C’era un’altra intensità. È la differenza principale, credo, tra la vita di una volta e quella di oggi. Siamo bombardati da stimoli, ed è tutto frammentato, spezzettato».
Lei a casa che musica ascolta?
«Ho due figli adolescenti e una moglie musicista. Non sono io a scegliere cosa sentiamo».
Ha venduto cento milioni di dischi e formato una generazione. Joni Mitchell, Carly Simon, Carole King erano la sua tribù. Taylor Swift si chiama Taylor in suo onore. Si ritiene una leggenda?
«Le leggende sono altre. Sono solo un musicista. Perché scrivo? A volte per tirare fuori le cose. Meglio fuori che dentro. Altre volte perché ho urgenza di dire qualcosa. Ultimamente ho cominciato a portare con me un registratore. A volte mentre cammino mi viene un’idea. Poi la riascolto. E mi sorprendo. Alla fine ho sempre gli stessi temi. La relazione con mio padre. La lotta contro la dipendenza. I legami. Il viaggio dell’essere umano. Mi piace molto suonare per il pubblico. Gli irlandesi, i brasiliani, gli italiani sono i miei preferiti. Sono Paesi molto musicali. In generale condividere la musica con il pubblico è l’aspetto più gratificante. Non è una comunità istantanea, ma è una comunità. C’è un legame quasi spirituale che si instaura attraverso la musica. È una liberazione dalla prigionia dell’ego».

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